La notizia di questi giorni per cui il giornalista Sallusti, direttore di un noto quotidiano, rischi seriamente l’esecuzione di una pena detentiva a 14 mesi di reclusione per una diffamazione a mezzo stampa, non pone – a mio parere – il problema del sistema processuale (per il quale, in presenza di recidiva reiterata non è possibile sospendere l’esecuzione della pena in attesa che il tribunale di Sorveglianza decida su eventuali misure alternative alla detenzione), bensì scopre un nervo sensibile del sistema penale sostanziale. Come è possibile che reati di trascurabile o nullo impatto sociale, quale sicuramente la diffamazione (pur nella forma aggravata dal mezzo della stampa) siano puniti con pena detentiva? Quale esigenza di generalprevenzione deve motivare la previsione astratta del carcere per fatti reato simili, in luogo, ad esempio, di robuste sanzioni pecuniarie probabilmente più efficaci sotto il profilo disincentivante?
E si badi che oltretutto una pretesa punitiva così immotivatamente rigorosa nei confronti di illeciti di opinione, soprattutto quando concernono la libera stampa, assume il sapore aspro della censura, della bacchettata che zittisce: cose che in una democrazia e in un sistema giudiziario “normali” non dovrebbero proprio essere ammesse.